Come le “difficoltà del terapeuta” influenzano il rapporto con il paziente.
Nello scambio relazionale tra paziente e terapeuta, sia il paziente che il terapeuta mettono in gioco le loro “resistenze” al cambiamento, anche se forse per il terapeuta sarebbe più opportuno parlare di incapacità di “adattamento” alla realtà della persona che egli intende curare. Non di rado chi si occupa di relazioni terapeutiche parte dalla convinzione che ci debba essere un cambiamento da parte della persona con cui si relaziona, senza pensare, che invece, per permettere all’altro di modificare uno stato disfunzionale, il terapeuta deve “adattare” la sua visione della realtà a quella del paziente stesso. E’ inevitabile dunque da parte del terapeuta lavorare su se stesso e sulla sua capacità di essere propensi al cambiamento superando le proprie resistenze. Il desiderio di far aderire il paziente al nostro sistema di credenze o alla nostra teoria è mutuato dalla incapacità di osservare la realtà da diversi punti di vista. Michael Hoyt fa un decalogo delle trappole in cui può cadere un terapeuta che si accinge a “interpretare” la realtà del paziente con la sua teoria (psicoterapie brevi, Hoyt, 2018, pag 30 e 31). Vediamone alcune:
- Nelle terapie tradizionali l’idea che il percorso di cambiamento debba essere lungo e tortuoso ha costruito la convinzione che, per cambiare, occorra un lungo percorso di terapia che si concentri prima nell’identificazione delle cause e poi sul funzionamento della persona nei vari ambiti della sua vita (familiare, affettivo, lavorativo, scolastico ecc.), al fine di modificarli uno ad uno, per raggiungere infine, una ristrutturazione dell’intero individuo. Questo modo di pensare però, porta a non considerare l’obiettivo specifico che il paziente porta nella seduta, poiché un intervento mirato e focalizzato sul problema, non solo è di per sé chiarificante per la persona ma, in alcuni casi, è anche ristrutturante per la stessa. L’intervento focalizzato inoltre permette alla persona di modificare il suo comportamento e la sua cognizione in ogni ambito disfunzionale, consentendo al paziente di riorientare la sua percezione a 360° rispetto al problema.
- Molti sono convinti che il miglior modo per cambiare prospettiva sia quella di sconvolgere completamente la vita e le convinzioni del paziente, anche se le ricerche hanno dimostrato che intervenire sulla parte più piccola di un sistema porta a ristrutturare tutto il sistema (Sito: Psicologi Italiani.it, Ricerca Mayo Clinic). Il Dott Robert Maurer, professore presso la UCLA University, adotta il kaizen “processo di piccoli passi per raggiungere grandi obiettivi”. Questo concetto è vero sia in senso negativo che in senso positivo. Infatti come un evento traumatico può cambiare la percezione di una persona in un attimo, una esperienza emozionale positiva può fare altrettanto in una frazione di tempo brevissima. Questo concetto, simile a quello di insight ("intuizione", nella forma immediata ed improvvisa) è utilizzato anche nella tradizione orientale buddhista mahayana, inteso come “piccola illuminazione” che ristruttura la percezione del soggetto rompendo gli schemi razionali della persona, portandolo a scardinare la visione rigida e il sistema di credenze, che gli impedisce di operare un cambiamento significativo nella propria vita.
- Per fare un modo che la persona operi un cambiamento il terapeuta deve assumersi dei “rischi”. Nulla può cambiare senza la partecipazione attiva ed emotiva del terapeuta che deve empatizzare, ma non cadere nella trappola del consolare o colludere con il paziente. In questi termini egli deve svolgere un doppio ruolo. Quello di osservatore esterno dei meccanismi di funzionamento della patologia e quello di compartecipante della sofferenza della persona. Secondo Carl Rogers (1961) «l’empatia è la capacità di percepire il mondo privato del paziente come se fosse nostro, senza però perdere la qualità del Come Se»
- Un altro nodo importante nel trattamento psicoterapeutico riguarda l’intervento sul sintomo. Come afferma Hoyt: c’è “la tendenza dei terapeuti a cercare e trattare in maniera perfetta presunti complessi e soggiacenti problemi di personalità piuttosto che puntare direttamente ai disturbi del paziente” (Hoyt 2018 psicoterapie brevi pag. 31). Le ricerche valutative sull’efficacia del trattamento portate avanti da Nardone già 29 anni fa, che riguardavano la teoria Freudiana dello spostamento del sintomo, dimostravano, grazie ai follow up a 3 mesi a 6 mesi e ad un anno, che “la scomparsa dei sintomi e dei problemi alla fine della terapia si manteneva nel tempo senza che si manifestassero ricadute o sintomi sostitutivi a quelli originari” (L’arte del cambiamento, Nardone & Watzlawick, 1990).
- Nondimeno la “Pressione Finanziaria” individuata da Hoyt, come “la tentazione di trattenere ciò che è proficuo e sicuro” può essere una buona trappola per il terapeuta che può essere incentivato a mantenere la relazione terapeutica per via del guadagno sicuro che ne deriva, senza pensare che, le conseguenze di una risoluzione veloce dei problemi del paziente, portano ad un’ottima pubblicità per il terapeuta stesso.
- Un altro punto importante da considerare è “il piacere” che può provare il terapeuta “in una conversazione intima e nell’attrattiva di vivere indirettamente una relazione duratura”. Per questo è fondamentale aver portato avanti un proprio percorso terapeutico che ci permetta di comprendere le dinamiche sottostanti il nostro funzionamento e che questo sia poi supportato da un’attenta supervisione dopo la terapia, questo per evitare “il bisogno di essere necessari all’altro e la difficoltà di dirsi addio con il paziente” tipico del controtransfert.
- Un ultimo punto, non meno importante è quello che Hoyt identifica come “reattanza psicologica” ossia quello che induce a pensare “nessuno mi deve dire quello che devo fare. Sono un professionista”. Questo punto è particolarmente interessante, poiché in alcuni casi, se il terapeuta è in grado di assumere un atteggiamento “one down” (Watzlawick, Beavin, Jackson 1967 La pragmatica della comunicazione umana) sarà in grado di intessere una relazione più proficua con il paziente. L’atteggiamento “one down” rappresenta la predisposizione del terapeuta a comportarsi in modo non direttivo. Questo processo porta il paziente ad aprirsi con maggiore facilità e permette al terapeuta di costruire una relazione più salda, soprattutto con persone che hanno comportamenti difensivi e resistenze alte. A tal proposito nella psicoterapia breve si utilizza la “client theory of change” (Duncan, Miller (2000) Journal of psychotherapy integration), per identificare quali atteggiamenti o soluzioni abbia trovato la persona per risolvere il suo problema. Questa manovra ha un enorme effetto ristrutturante sull’autostima del paziente nel momento in cui si accorge che le soluzioni, in alcuni casi, sono già dentro di lui.
In conclusione il miglior modo per riuscire ad essere efficienti in una terapia è quello di imparare a riconoscere dentro di noi, in modo chiaro, questi “stati”, per utilizzare al meglio le nostre risorse nella relazione con il paziente.
Bibliografia
Duncan, Miller, Journal of psychotherapy integration, 2000
Hoyt F. Michael, Psicoterapie Brevi. Principi e Pratiche. (2009) Roma: CISU, 2018
Nardone, G., Watzlawick, P., L'arte del cambiamento. Firenze: Ponte alle Grazie, 1990.
Rogers Carl, On becoming a person. New York: Houghton Mifflin, 1961
Watzlawick, P.-Beavin, J.H.-Jackson, D.D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi. (1967) Roma: Astrolabio, 1971
Sito: Psicologi Italiani.it, Ricerca Mayo Clinic